Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog

Presentazione

  • : E.E.
  • : Il blog di Maria Elena Tanca
  • Contatti

Profilo

  • Maria Elena Tanca
  • Nata a Sassari nel 1981, è giornalista professionista dal 2010.
  • Nata a Sassari nel 1981, è giornalista professionista dal 2010.

Testo Libero

Cerca

Archivi

11 novembre 2014 2 11 /11 /novembre /2014 16:46

È l'unica artista indipendente curda e di religione yazida sulla scena europea.
Si chiama Lisa Gulizar e ha 28 anni: ha lasciato la Germania per studiare, ma il destino ha voluto che diventasse una modella. Si è trasferita nel Regno Unito subito dopo la scuola superiore. E qui, mentre si laureava all’università di Oxford Brooks, ha iniziato a calcare le passerelle. Oggi vorrebbe far conoscere la sua cultura al mondo, soprattutto alla luce delle persecuzioni a cui sono sottoposti gli yazidi dallo Stato Islamico (Isis). «Stiamo attraversando uno dei momenti più difficili della nostra storia, già costellata di persecuzioni e fughe», dice a Lettera43.it. «Non c’è un singolo momento della mia vita in cui non pensi a quel che sta succedendo. E sono pronta a fare tutto quel che posso per aiutare. Voglio usare il mio lavoro per attirare l’attenzione su questa terribile situazione».
PER L'ISIS LE DONNE YAZIDE SONO SCHIAVE. La guerra tra jihadisti e curdi non si sta combattendo solo a Kobane, città siriana al confine con la Turchia, ma anche sul fronte della propaganda. Nel quarto numero della sua rivista online, Dabiq, l’Isis sostiene la legittimità della riduzione in schiavitù sessuale delle donne degli “infedeli” in base alla legge islamica. «Ci si dovrebbe ricordare che ridurre in schiavitù le famiglie dei kuffar e prendere le loro donne come concubine è un aspetto saldamente stabilito dalla Sharia», si legge sulla rivista. Un rapporto della Ong Human Rights Watch riferisce di centinaia di donne yazide vendute come schiave sessuali. «Abbiamo raccolto storie scioccanti di conversioni religiose forzate, di matrimoni forzati e di abusi sessuali e schiavitù», ha denunciato Hrw nel rapporto redatto sulla base di 76 interviste. I dati forniti dai ricercatori dell’Onu sono ancora più allarmanti: si parla di 7 mila donne yazide in mano all’Isis.

DOMANDA. Lisa, qual è il ruolo delle donne nella vostra cultura?
RISPOSTA. Siamo libere di indossare, mangiare e bere quello che vogliamo, e di vivere dove vogliamo. Non ci sono matrimoni combinati, crediamo nel matrimonio monogamico. I nostri uomini accettano e rispettano le opinioni delle donne e la nostra libertà di scegliere. Siamo cambiati con il tempo e penso che ciò sia positivo.
D. Cosa pensa invece della figura della donna nella religione islamica?
R. L’idea che l’Isis ha delle donne è molto arretrata. Le donne musulmane sono trattate come proprietà e devono fare quello che dicono gli uomini. Sono subordinate, non hanno pari diritti e vengono usate per la riproduzione e il piacere, solo per servire l’uomo. I musulmani liberali sono diversi da loro. Le donne musulmane hanno gli stessi diritti degli uomini e sono donne in carriera. Sono inoltre libere di indossare ciò che vogliono.
D. Molte donne curde a Kobane stanno combattendo accanto agli uomini.
R. Ho molto rispetto per loro. So che prendono parte ai combattimenti perché i soldati musulmani pensano che andranno in Paradiso se uccisi da un uomo, ma non da una donna.
D. E riguardo alle donne europee che si uniscono ai jihadisti?
R. Mi dispiace tanto per le donne convinte che ciò che fa l’Isis sia ciò che Dio vuole. Non penso che sarebbero d’accordo se le stesse cose accadessero a loro o alle loro sorelle e figlie. È una contraddizione per una donna accettare una religione come quella dell’Isis, che consente di stuprare e rapire ragazzine e donne innocenti. Tutto questo è vergognoso.
D. Perché l’Isis ce l’ha tanto con gli yazidi?
R. Secondo il Corano, gli yazidi hanno ucciso uno dei seguaci del profeta Maometto. Inoltre sono accusati di essere adoratori del Diavolo e non credenti. Il che non è vero.
D. E qual è la verità?
R. La verità è che questa minoranza religiosa è stata un bersaglio dell’Islam per centinaia di anni. Gli yazidi non hanno mai avuto un esercito per proteggersi. Sono sempre stati descritti come un popolo con una religione pacifica e come buoni padroni di casa per i loro vicini. E queste caratteristiche sono state considerate una debolezza dalla maggior parte dei Paesi vicini.
D. Veniamo a quello che sta accadendo a Kobane: come mai quella città è così importante per il popolo curdo?
R. È una città strategica ed è un simbolo per i curdi, è la loro roccaforte.
D. Pensa che la coalizione anti-Isis stia facendo tutto il possibile per aiutare i curdi?
R. Dovrebbe fornire armi migliori allo Ypg (le unità per la protezione del popolo, ndr) perché i suoi combattenti ne hanno di vecchie e stanno lottando per la propria vita e per quella degli altri. L’Isis è dotato di una tecnologia molto più recente.
D. Che opinione ha della Turchia e del suo approccio al conflitto?
R. La Turchia, come membro della Nato, avrebbe dovuto agire diversamente. Ha un chiaro mandato per intervenire ed evitare che che l’Isis conquisti Kobane, città siriana al confine col suo territorio. Finora non ha fatto nulla: in realtà sta ancora sostenendo l’Isis.
D. E per quale motivo, secondo lei?
R. La Turchia non vuole un Kurdistan indipendente, che sarebbe controllato dallo Ypg. Ankara può anche avere alle spalle una storia di frizioni con i curdi, ma si sarebbe potuta mostrare più compassionevole. Sembra aver più paura di un Kurdistan indipendente che dello Stato islamico. Vuole reprimerci e acquisire la regione curda della Siria.
D. Parliamo di Europa: che rapporto ha con la sua comunità in Germania?
R. Sono appena tornata dalla Germania dove ho visitato la mia famiglia e il nostro centro comunitario, che aprirà per la prima volta il 26 ottobre. Ho anche preso parte a un incontro per organizzare l’apertura del centro. Tornerò il 26 per l’inaugurazione con il presidente dell’Associazione Kurdistan di Londra. Tutti i membri della comunità curdo-yazida sono stati di grande sostegno nel completamento dei lavori per il centro comunitario.
D. Come hanno reagito i membri della comunità alla sua decisione di andare all’estero?
R. Ho sempre voluto studiare in un Paese di lingua inglese. I miei genitori sapevano dei miei progetti. Hanno accettato tre anni prima che mi trasferissi nel Regno Unito, ma dentro di loro speravano che cambiassi idea, perché non è mai stato sicuro per uno yazida fuori dalla sua comunità. 
D. Come vive la religione oggi? È praticante?
R. Noi yazidi abbiamo il diritto di scegliere se vogliamo praticare la nostra religione o no. È il nostro libero arbitrio. Nei miei primi 20 anni ho cercato anche di comprendere le altre religioni e come vengono praticate. Sono cresciuta in un Paese cristiano, la Germania, sperimentando una religione diversa, la sua pratica e le sue celebrazioni. Penso che sia affascinante.
D. In Germania ha mai avuto problemi a causa della sua religione?
R. Non proprio per la religione, perché non ne abbiamo mai parlato più di tanto. Le persone pensano sempre che siamo musulmani. Non è che teniamo la nostra fede nascosta, ma in genere io ne parlo solo quando mi fanno domande sulle mie origini. Sono contenta di rispondere perché è un modo per educare le persone.
D. Perché pensa che ci sia bisogno educare le persone?
R. Perché quel che è stato raccontato da alcuni media non è corretto. Se non sbaglio anche la Bbc e Channel4 hanno realizzato dei servizi che ci definiscono adoratori del Diavolo. Ciò non ha alcun senso. Mi sono chiesta: «Ma dove hanno fatto le loro ricerche?». Questa leggenda è stata inventata perché noi non abbiamo mai vinto una guerra. Da sempre sono i vincitori che scrivono la storia, raccontando al mondo intero la loro versione dei fatti. Ecco perché gli yazidi sono stati rappresentati come “i cattivi”.
D. Ok, allora ci dica qualcosa che la gente non sa della vostra religione.
R. Abbiamo due libri sacri: Kitab al-Jilwa e Mishefa Res. E in nessuno dei due è prescritto di adorare il Diavolo. Se proprio vuole sapere la verità, pronunciare la parola “Diavolo” nella nostra lingua è severamente vietato. Noi siamo adoratori del sole.
D. Concludiamo parlando del suo impegno: cosa fa per aiutare il popolo curdo?
R. Sono pronta a fare tutto quello che posso per richiamare l’attenzione su questa terribile situazione. Mi sento come se la nostra razza fosse stata cancellata non solo dalle mappe, ma anche dai libri di storia. E sto lavorando duro affinché tutto questo cambi. Stiamo cercando di ottenere l’autorizzazione per una serie di mostre sui curdi, il Kurdistan e gli yazidi nei vari musei del mondo, al British Museum e al Louvre.
D. Quali sono i suoi progetti per il futuro?
R. Mostrare la grande diversità del mio popolo e presentarmi come un talento in evoluzione. I progetti di moda e beneficenza a cui sto lavorando sono tanti e sono fonte d’ispirazione per i giovani che mi seguono. Attualmente sono uno dei volti di People are not products, una campagna umanitaria contro la bassa autostima. Non vedo l’ora di farla conoscere a tutti i frequentatori del centro comunitario yazida in Germania.

 

Da Lettera43

Condividi post
Repost0
30 aprile 2014 3 30 /04 /aprile /2014 20:54

All'anagrafe fa Maher Almalek. Mc Maher è il nome d'arte. Lui è un rapper siriano, ma vive a Istanbul, dove si è rifugiato un anno fa con la famiglia. E, in versi, urla al mondo la sofferenza del suo popolo.
«La fame nelle città è come una bestia, rifiuta di andarsene e rende ancora più orribile il sangue. Oh, Dio salvaci! Ci stanno dimenticando giorno dopo giorno».
Lontano da casa, la musica è l’unico modo che gli resta per mandare un messaggio alla sua gente, in guerra ormai dal 2011. Maher ha 23 anni ed è originario di Damasco. Ha lasciato la Siria un anno fa per sfuggire alla chiamata dell’esercito di Bashar al Assad. «Il governo mi voleva tra le sue truppe, per uccidere civili. Io non potrei mai farlo, così sono andato via».
Ora Maher lavora come direttore e ingegnere del suono per Sout Raya, una stazione radio indipendente fondata e gestita da siriani a Istanbul. Il rap è la sua passione da quando aveva 14 anni. In Siria ascoltava Eminem e 2Pac: «Ho imparato grazie a loro, poi, lentamente, ho iniziato a migliorare il mio flow».
L'ESPERIENZA COME FONTE DI ISPIRAZIONE. All’attivo ha già nove album. Dal 2011, anno in cui è scoppiata la rivoluzione, la sua musica si è fatta più politica. A Istanbul, e con la famiglia fuori pericolo, può scrivere sferzanti versi di denuncia contro il regime e contro gli artisti nemici della rivoluzione, come i rapper pro-Assad Volcano Mc, Conolist e Mehdi Kelani. «Nella guerra siriana si è aperto un vero e proprio fronte musicale. Ogni rapper cerca di supportare la propria fazione con le sue canzoni. Io sto dalla parte dei ribelli, perché penso siano nel giusto».
La sua arte trae ispirazione da episodi di vita vissuta, momenti reali quanto drammatici: «Le scene a cui ho assistito in Siria erano scene sanguinose, scene di morte. Anch’io, come molti, ho sofferto la fame per un periodo prima di arrivare qui».

Autodidatti del rap sfuggiti alla leva militare obbligatoria.
Maher non è l’unico rapper siriano a essersi rifugiato a Istanbul. La città turca ha accolto tanti altri artisti. Molti di essi sono suoi conoscenti o amici, come il 21enne Sayf al Thawra, nome d’arte di Mohannad Sulaiman, arrivato a Istanbul due anni e mezzo fa.

Anche lui autodidatta del rap, anche lui andato via per sfuggire alla leva militare obbligatoria. I due giovani si conoscono talmente bene che Mohannad sta registrando il suo primo album nello studio di Maher, situato nella sede di radio Sout Raya. Ma la collaborazione tra di loro non si limita a questo: insieme hanno rappato in diverse canzoni, tra cui Al maja’a 3, uno dei tre pezzi scritti da Mc Maher sul problema della carestia in Siria.
La libertà d’espressione, però, non è per tutti. Maher e Mohannad sono fortunati, perché sono riusciti a scappare dalla Siria con le loro famiglie. Ciò permette loro di scrivere versi contro il regime senza correre troppi rischi. Diversa è la situazione di un altro rapper, che ha chiesto di restare anonimo per non mettere in pericolo i suoi parenti. Possiamo solo dire che anche lui vive ad Istanbul, ha 23 anni ed è di Rif Dimashq, un sobborgo di Damasco.
L'IRRUZIONE DEGLI UOMINI DI ASSAD. «Mc Maher può dirti il suo nome perché ha iniziato a rappare di argomenti politici quand’era già fuori dalla Siria», ha detto. «Se fai rap quando sei dentro il Paese diventi un ricercato, a meno che tu non scriva a favore di Assad. In quel caso ricevi il supporto del governo. Inoltre la famiglia di Mc Maher è al sicuro, mentre la mia è ancora in Siria».
La paura per l’incolumità dei suoi cari, l’ha portato a smettere momentaneamente con la musica. «Qualche giorno fa, l’esercito ha fatto irruzione in casa mia, in Siria. Gli uomini di Assad mi cercavano e hanno fatto un casino». La passione per il rap, però, è difficile da spegnere. Per questo il giovane sa che, prima o poi, riprenderà con la musica. «Il rap mi piace perché dice sempre la verità, è un’arte rivoluzionaria, parla delle ingiustizie e delle sofferenze di tutti i tempi e di tutte le persone».
LA MUSICA NEL SANGUE. Anche l’anonimo artista usa, o meglio usava, il rap per supportare la sua gente: inizialmente stava dalla parte dei ribelli, poi, con l’arrivo di al Qaeda e dei combattenti islamici, ha scelto una via di mezzo. «Come la maggior parte dei siriani, ora voglio semplicemente che la guerra abbia fine. Non mi importa chi sarà il vincitore». Il rapper misterioso ha lasciato la Siria nel 2013. A Istanbul non ha un lavoro, non ha nulla: «Vivere qui è molto difficile, per questo sto cercando di trasferirmi in Scandinavia, Svezia, Norvegia, Danimarca o in qualsiasi altro Paese che possa garantirmi diritti come essere umano». Rispetto ai suoi colleghi è stato meno fortunato, eppure, come loro, sa che non abbandonerà mai il rap, perché ce l’ha nel sangue. E prima o poi quelle rime che tanto infastidiscono Assad torneranno a vibrare nell’aria o sulle onde di una radio lontana. 

Questo articolo è stato pubblicato su Lettera43

Condividi post
Repost0
20 dicembre 2013 5 20 /12 /dicembre /2013 13:55

«Sono cresciuto in una casa modesta ma sicura, e sono stato abbastanza bravo da non aver avuto bisogno di andare al college». John Harrison è uno dei tanti senzatetto americani. Racconta la sua storia davanti a una platea di studenti, durante uno dei panel sugli homeless che ogni tanto i college statunitensi organizzano. La sua vicenda suona come un monito per i giovani che lo ascoltano. John, infatti, è riuscito a far a meno di una laurea, ma non per molto. Inizialmente è stato in grado di costruirsi una vita dignitosa: è diventato manager, ha comprato una casa in un sobborgo del Maryland. Ma un giorno la sua azienda è stata rilevata, John ha perso il  lavoro e la sua casa è bruciata. A quel punto, la mancanza di un’istruzione universitaria ha fatto la differenza. Senza una laurea, John non è riuscito a trovare lavoro. Ha condotto così una vita solitaria, senza un tetto sopra la testa e senza amici in grado di aiutarlo in caso di bisogno.

La storia di John è una delle tante negli Stati Uniti, dove quella dei senzatetto è tra le piaghe più annose. A gennaio del 2013, rivela l’Annual Homeless Assessment Report to Congress (AHAR) del Dipartimento della casa e dello sviluppo urbano degli Stati Uniti,  si contavano 610.042 homeless. Un quarto di questi era minorenne (23%, pari a 138.149). Il 10% (61.541) aveva tra i 18 e i 24 anni, mentre il 67% (410.352) aveva 25 anni o più. Tra il 2012 e il 2013 il numero dei senzatetto a livello nazionale è diminuito di appena 4 punti percentuali (23.740 persone). Un decremento piuttosto modesto.

Sono tante le ragioni per le quali ci si può trovare senza una casa. Coloro che rimangono senza tetto per un lungo periodo di tempo, i cosiddetti chronically homeless, sono persone «con disabilità, in genere problemi mentali e disturbi da abuso di sostanze oppure malattie fisiche», spiega a La Discussione Nan Roman, presidente e amministratore delegato della National Alliance to End Homelessness (NAEH). Altre volte si tratta di famiglie numerose, «che hanno difficoltà a reperire un’abitazione. È difficile infatti trovare appartementi con tanti posti letto e a buon mercato». Poi ci sono i temporary homeless, quelli provvisoriamente senza casa. Negli Stati Uniti costituiscono la stragrande maggioranza. «In questi casi alla base ci sono principalmente problemi economici. Sono persone povere che vengono travolte da una crisi, per esempio perdono il lavoro e non possono più pagare la casa», chiarisce Nan Roman.

Quella degli homeless è una situazione che riguarda tutto il Paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Ed è particolarmente grave in California e nello stato di New York. Dato abbastanza scontato, perché «questi due stati sono i più grandi e popolosi – dice Nan -. Tuttavia, anche Florida e Texas presentano percentuali elevate per quanto concerne gli homeless». Il New York Times ha dedicato diversi articoli al problema. Uno degli ultimi, la storia in cinque parti di Dasani, una bimba senzatetto, denuncia una situazione allarmante: 22.000 bambini homeless nella sola città di New York. Il dato più alto dai tempi della Grande depressione.

Ma oltre a quest’ottimo pezzo di giornalismo firmato dalla reporter investigativa Andrea Elliott, di recente sul New York Times è apparso un articolo sul caso dell’Alaska. Uno stato, questo, in cui il confine tra il campeggio all’aperto e la mancanza di una casa è molto sottile. Qui il campeggio è insieme uno stile di vita e parte di un’eredità: vivere in una tenda può essere una libera scelta, come può non esserlo. Lo sa bene Linda Swarner direttore esecutivo della Food Bank Kenai Peninsula: «Nel 2012 ci sono stati 7.281 incontri con famiglie in cerca di beni gratuiti forniti dall’Emergency Food Assistance Program (TEFAP). Ciò significa una media di 607 famiglie al mese, numero cresciuto fino ad arrivare a 630 al mese durante ottobre del 2013». I singoli che si sono rivolti alla Food Bank sono stati 17.152. Di questi un terzo erano bambini. L’Alaska è tuttavia solo al nono posto quanto a crescita dei senzatetto cronici, che sono aumentati di quasi il 21 per cento dal 2011 al 2012. «L’Alaska ha costi d’abitazione molto elevati, ma nella classifica nazionale sta dietro alla California e allo stato di New York perché ha una popolazione piuttosto esigua», spiega Nan Roman.

Finora il numero dei senzatetto non ha conosciuto altro che una piccola riduzione. Resta ancora tanto da fare per risollevare la situazione a livello nazionale. È necessario innanzitutto creare più abitazioni a prezzi accessibili e rinforzare la rete di sicurezza per prevenire il problema degli homeless. Fondamentale è anche ripristinare il programma creato per assegnare  rapidamente un nuovo alloggio ai senza tetto. Gli investimenti federali in questo settore sono in crescita, ma  ancora insufficienti.

Questo articolo è stato pubblicato su La Discussione
Condividi post
Repost0
13 dicembre 2013 5 13 /12 /dicembre /2013 14:43

I danni causati dall’uragano Sandy, che ha colpito tutta l’East Coast degli Usa nel 2012, avrebbero potuto esser previsti  con maggior precisione se solo le mappe disegnate dalla Federal Emergency Management Agency fossero state aggiornate per tempo.  Lo rivela un’inchiesta del sito di giornalismo investigativo ProPublica, già vincitore di due premi Pulitzer.

Dalle interviste e dai documenti raccolti dagli autori dell’inchiesta, emerge che i funzionari statali, locali e federali sapevano da anni della scarsa affidabilità delle mappe nel prevedere i rischi di un’alluvione. Perciò chiesero alla FEMA di aggiornarle, servendosi di metodi e tecnologie che non esistevano quando furono disegnate, nel 1980. Ciononostante il loro grido d’allarme restò a lungo inascoltato.

«Il principale ostacolo – spiega a La Discussione Al Shaw, uno degli autori dell’inchiesta – è stato la mancanza di fondi. Solo nel 2003 il Congresso ha stanziato un miliardo di dollari per l’aggiornamento delle mappe. A quel punto  – continua Al Shaw – la FEMA ha messo insieme un progetto per digitalizzarle. Purtroppo, però, si è limitata a ridisegnare le vecchie mappe cartacee in forma digitale, senza aggiornare i dati».

Così i costruttori hanno fatto affidamento su indicazioni sbagliate quando hanno deciso di edificare nuove case vicino all’acqua. E anche i proprietari delle abitazioni colpite dall’uragano erano convinti di essere fuori dalle zone a rischio. Invece è andata diversamente. Quando, il 29 ottobre del 2012, l’uragano Sandy si è abbattuto con tutta la sua forza sull’East Coast, migliaia di edifici, erroneamente classificati come fuori dalla zona a rischio inondazioni, sono stati danneggiati.

Nel 2006 la FEMA  aveva cambiato rotta, ma le nuove mappe digitali, basate su modelli previsionali più precisi e su dati più aggiornati, sono state rilasciate quando Sandy aveva già devastato il territorio.

Le cartine sono importanti per almeno due motivi: non si limitano a stabilire i criteri di sviluppo nelle aree a rischio, determinano anche le tariffe che i proprietari degli edifici devono pagare per assicurarsi attraverso il National Flood Insurance Program. Proprio perché ignari del pericolo, nel 2012 molti newyorchesi non erano provvisti d’assicurazione.

 Consapevoli della mancanza di fondi per aggiornare le cartine, alcuni stati hanno deciso di far da soli.  Tra questi il North Carolina che, dopo l’uragano Floyd del 1999, ha pagato per ottenere una mappa del suo territorio realizzata con il sistema LIDAR. «Oggi i due metodi migliori per prevedere le alluvioni – spiega a La Discussione Al Shaw – sono LIDAR e ADCIRC. Il primo sistema si serve di aerei che sparano laser a terra».

LIDAR rappresenta una tecnologia efficiente per l’acquisizione dei modelli digitali del terreno (Digital Terrain Model) e di superficie (Digital Surface Model) di ampie porzioni di territorio. Nello studio delle alluvioni è utile per la ricostruzione del bacino idrografico, della morfologia  dell’alveo e delle zone soggette ad allagamento e per l’individuazione di situazioni d’ostacolo al deflusso. Inoltre, la creazione di un DTM ben definito, permette di sviluppare modelli idraulici più precisi. «ADCIRC – continua Al Shaw – è invece un programma per computer capace di simulare in maniera dettagliata l’azione delle onde durante una tempesta».

Nonostante i progressi della tecnologia, è bene ricordare che  nessuna mappa può prevedere tutte le possibili conseguenze di un uragano o d’una tempesta. Certo è che più le previsioni sono precise, più è possibile limitare i danni. Non a caso i quartieri di New York più colpiti da Sandy sono stati Brooklyn e Queens, vale a dire quelli che non hanno potuto usufruire di mappe aggiornate e attendibili.

Da La Discussione
Condividi post
Repost0
22 novembre 2013 5 22 /11 /novembre /2013 11:45

L’arte imita la realtà e la realtà imita l’arte. Devono aver pensato questo in Venezuela, dove ormai anche i manichini sembrano aver fatto la mastoplastica additiva. Le vendite non andavano e così qualcuno ha provato ad adattarli al modello femminile dominante nel Paese: gambe lunghe e snelle, vitino di vespa e seni dalle dimensioni esagerate. Non si sa bene chi abbia iniziato, certo è che i nuovi manichini dalle forme aumentate hanno avuto successo.  E le vendite ora vanno meglio. Le venezuelane osservano i manichini attraverso le vetrine, con ammirazione e desiderio. Pensano: «Vorrei essere così bella, vorrei avere quell’aspetto», ed entrano a comprare. I manichini riflettono le loro fantasie di perfezione in un Paese in cui la “buena presencia” è diventata un’ossessione.

MISS VENEZUELA. «I concorsi di bellezza nazionali come Miss Venezuela e le corone conquistate nelle gare internazionali di Miss Mondo e Miss Universo hanno contribuito a far nascere questa tendenza – spiega a La Discussione il dottor Daniel Slobodianik, che fino al 2007 è stato il chirurgo plastico ufficiale di Miss Venezuela -.  Anche i mass media hanno parecchie responsabilità in questo senso: programmi televisivi, sfilate di moda e pubblicità mostrano donne dai corpi scolpiti e perfetti».  La passione per il bisturi risale per la precisione agli anni Settanta e Ottanta, quando il Venezuela conquistò per tre volte  il primo posto a Miss Universo.

BELLEZZA ARTIFICIALE. Una regola, quella del ritocchino, a cui non sembra esser sfuggita la venezuelana Gabriela Isler, Miss Universo 2013. Secondo i siti specializzati Missosology.org e GlobalBeauties.com, Gabriela si sarebbe rifatta seno, naso, ginocchia e dita. Del resto la concorrenza nei concorsi internazionali è così forte che alcuni Paesi esagerano con le trasformazioni chirurgiche. Ma non c’è da stupirsi, se si pensa che Osmel Sousa, direttore di Miss Venezuela, ha come motto: «La bellezza interiore non esiste. É qualcosa inventato dalle donne brutte per giustificarsi». Nei concorsi quel che conta è l’aspetto fisico, «non importa se la bellezza sia naturale o no», afferma. Sousa consigliò alla prima Miss Universo venezuelana di rifarsi il naso. Fu quel suggerimento, sostiene lui, a rendere possibile la vittoria del Venezuela.

MINORENNI. La pressione sociale nel Paese è talmente forte da spingere le donne a ricorrere al bisturi fin da piccole. «Qui molte adolescenti chiedono come regalo per il loro  15esimo compleanno una mastoplastica additiva. L’età media a cui le donne si sottopongono a questo intervento va dai 19 ai 35 anni», racconta il dottor Daniel Slobodianik. La mania coinvolge tutte, dalle benestanti alle più povere. Quando i soldi non bastano, le donne si rivolgono alle strutture pubbliche, dove i prezzi sono contenuti.

SOCIALISMO. L’ossessione per la chirurgia plastica stride con l’ideologia socialista del governo. Già l’ex presidente Hugo Chávez, morto nel mese di marzo, tuonò in televisione contro il silicone e la maledizione delle “pechugas grandes” (“grossi seni”). «Mi arrivano migliaia di richieste d’aiuto, qualcuno mi ha fatto vedere queste lettere. Richieste di 20-30.000 bolivares (circa 2-3.000 euro) per un’operazione. Non le ho nemmeno prese in considerazione», dichiarò. Chávez stigmatizzò il comportamento di chi decideva di rifarsi il seno nonostante i problemi economici, definendolo “terrificante”. La sua presa di posizione fu un po’ tardiva, a dire il vero. Già parecchi anni prima di quelle parole, era sufficiente fare un giro per Caracas per essere inondati da messaggi che pubblicizzavano i “seni a rate” su giornali e cartelloni stradali.

 CRITICHE, MA POCHE. Naturalmente non tutte accettano di uniformarsi a un modello di bellezza imposto dall’alto. Il mese scorso, per esempio, diversi gruppi di donne hanno protestato contro Miss Venezuela, criticando le pressioni esercitate dal concorso sulle venezuelane. Tuttavia, le crociate contro i seni rifatti sono state poche. In genere chi ha alzato la voce lo ha fatto dopo che qualcuno ci ha lasciato la pelle. Negli ultimi due anni, riportano i media locali, diverse donne sono morte in seguito a interventi andati male, spesso eseguiti in cliniche non autorizzate. Ma le ossessioni, si sa, si trascinano sempre dietro qualche pericolo e, per un seno più grande, molte venezuelane sono disposte a correre più di un rischio.

Questo articolo è stato pubblicato su La Discussione

Condividi post
Repost0
3 aprile 2013 3 03 /04 /aprile /2013 14:23

Il settore della tecnologia green sta continuando a crescere in California. Lo sostiene un rapporto di Next 10, gruppo no-profit di San Francisco che ha rilevato l’indice di innovazione ambientale dello stato nel corso degli ultimi cinque anni. Secondo lo studio,la California è riuscita a ridurre le emissioni pro capite di gas serra, nonostante la sua economia e popolazione siano cresciute. I lavori nel campo dell’energia pulita e i brevetti nel settore della tecnologia verde sono in aumento. Un dato positivo per uno stato che ha il peggior tasso di disoccupazione del Paese, pari al 9,8 per cento. Un altro elemento positivo è la sempre maggior diversificazione dell’economia verde.

Le norme in materia ambientale della California hanno ispirato nei decenni gli altri stati americani e perfino il governo federale. Nel 1947 il governatore Earl Warren, firmò la prima legge statale per la protezione dell’aria. Due decenni dopo una perdita di petrolio al largo della costa di Santa Barbara diede impulso alla nascita del moderno movimento ambientalista. L’incidente fu anche all’origine del Ceqa, l’Atto di qualità ambientale della California, approvato dal governatore Ronald Reagan nel 1970. Nel 2006, infine, Arnold Schwarzenegger firmò l’Assembly Bill 32 (Ab 32), atto che si pone l’obiettivo di riportare le emissioni di gas serra ai livelli del 1990 entro il 2020.

Il settore  in cui la California primeggia è senza dubbio quello delle automobili poco inquinanti. Nel 2002 lo stato approvò una legge che imponeva ai produttori di auto di ridurre drasticamente le emissioni dei veicoli. A ruota 13 altri stati dichiararono che avrebbero fatto altrettanto. Nel 2009, preoccupati per il quadro legislativo che si stava delineando, i costruttori d’auto decisero di comune accordo di innalzare gli standard nazionali di efficienza del carburante. Le pressioni dal basso verso l’alto avevano funzionato, costringendo l’industria automobilistica ad adattarsi alla nuova situazione.

Secondo quanto stabilito da un'altra legge, inoltre, le energie rinnovabili dovrebbero fornire un terzo del fabbisogno energetico della California entro il 2020. Nel 2011 lo stato si è confermato uno dei più attivi sul fronte. Secondo Ernst & Young, infatti, in quell’anno le aziende californiane hanno raccolto da sole il 57 per cento degli investimenti di venture capital indirizzati al settore negli Usa.

Dal 2006 ha poi iniziato a prendere corpo il progetto di rifornire di energia pulita i penitenziari, grazie a un accordo di durata ventennale siglato tra il California Department of Corrections and Rehabilitation (Cdcr) e SunEdison. Il progetto prevede la realizzazione di cinque impianti fotovoltaici sulle prigioni statali di Chuckawalla Valley e Ironwood a Blythe, del California Correctional Institution a Tehachapi, della North Kern State Prison a Delano e della California State Prison a Lancaster.

Da The Post Internazionale

 

Condividi post
Repost0
19 marzo 2013 2 19 /03 /marzo /2013 14:29

Mahmoud Hassino è un giornalista sirianogay. Ogni giorno da Antiochia, città turca nella quale si è trasferito nel 2011, dirige la prima rivista siriana per omosessuali. L’ha fondata lui: si chiama ‘Mawaleh. “Per ora la trovate solo online -- spiega. È fatta grazie al contributo di alcuni volontari”. Cinque di loro scrivono dalla Siria, il sesto è dovuto fuggire perché la sua città è stata distrutta durante la guerra. “Ora è seduto qui accanto a me. È arrivato in Turchia di recente”, dice Mahmoud.

‘Mawaleh’ nasce con uno scopo: far crescere e diffondere la consapevolezza. Ma la creazione della rivista è solo il primo passo verso la realizzazione di un progetto più vasto. Mahmoud vuole infatti dar vita a un’associazione gay riconosciuta. A quel punto potrà contattare altre organizzazioni della società civile in Siria, per portare sul tavolo della politica il tema dell’omosessualità e dei diritti Lgbt. E forse avrà la possibilità di aiutare gli omosessuali che lo desiderano a fuggire dal Paese e di trovar loro un posto sicuro in cui vivere. “Ora come ora non abbiamo fondi per farli scappare, né tantomeno una struttura in cui accoglierli”. Ci vorrà ancora molto tempo per fare tutto, anche perché per ora la Siria è nel pantano di una guerra che sembra senza fine. E non si sa quale sarà il quadro politico interno a conflitto terminato.

L’articolo 520 del codice penale siriano del 1949 penalizza gli atti sessuali “contrari alla natura”, per i quali prevede almeno tre anni di carcere. “All’inizio della rivolta il regime ha condotto una campagna omofobica attraverso la televisione di Stato, accusando i rivoluzionari di essere gay, sodomiti e immorali”, rammenta Mahmoud. Ma il governo di Assad non è nuovo a raid nei luoghi frequentati da gay: l’ultimo avvenne tra il marzo e l’aprile del 2010, quando le autorità siriane fecero irruzione in oltre quattro feste omosessuali private, arrestando più di 25 uomini. “Non importa chi vincerà questa guerra: chiunque sarà, prenderà di mira gli omosessuali. Siamo un target facile -- sostiene Mahmoud. Sono convinto che in Siria il secolarismo, alla fine, prevarrà ma, immediatamente dopo la fine della guerra, sarà pericoloso per i gay”.

Mahmoud non è certo il primo a interessarsi al tema dell’omosessualità nel mondo musulmano. Michael Luongo, giornalista e fotografo americano, ne ha scritto nel libro ‘Gay Travels in the Muslim World’. La pubblicazione, tradotta anche in arabo, è una raccolta di storie narrate da omosessuali musulmani e non: c’è il ragazzo ebreo trasferitosi in Mauritania, dove si gode il sesso con alcuni uomini del posto; c’è l’uomo del Bangladesh che, girovagando per le aree di battuage locali, scopre un mondo di prostituzione e stanze prese in affitto per meno di un dollaro all’ora e c’è lo stesso Luongo, stupito nell’apprendere che, perfino sotto i talebani, a Kandahar si celebravano matrimoni tra gay. “Penso che, per quanto riguarda il tema dell’omosessualità, una delle principali differenze tra Medio Oriente e Occidente sia che fare non significa essere –- spiega Michael. In Occidente avere un comportamento omosessuale equivale a esserlo, in Medio Oriente, invece, non è così”.

Michael scende più nel dettaglio e racconta di uomini che fanno sesso con altri uomini senza per questo essere identificati come gay. “In Occidente dobbiamo dare per forza un’etichetta alle cose, dobbiamo dichiararci. In Medio Oriente non è necessariamente così”, chiarisce. Inoltre, “il Medio Oriente è molto omosociale: gli uomini socializzano quasi esclusivamente con altri uomini. Perciò, è facile nascondere di essere gay. Tenersi per mano, ad esempio, è molto comune e non significa essere omosessuali”. Il problema, a suo avviso, nasce quando il comportamento diventa identità e quell’identità chiede un riconoscimento politico.

Michael conosce Mahmoud da qualche anno. I due si sono incontrati per la prima volta a Damasco nel 2010, durante il tour per la presentazione della versione araba del libro. “All’epoca dentro Damasco,esistevano alcuni bar in cui i gay potevano socializzare. - ricorda Luongo - Nel vecchio mercato di Aleppo, c’era inoltre un negozio di tappeti chiamato ‘Oscar Wilde’, un posto in cui i turisti gay potevano informarsi su quel che succedeva in zona. Non so cosa ne sia stato di quei luoghi ora”. Michael parla anche di un parco vicino al Four Season Hotel di Damasco. Qui gli omosessuali andavano in cerca di rapporti occasionali. Era frequentato anche da eterosessuali del posto, giovani coppie non sposate, che volevano passare il tempo senza sentirsi giudicate. “Periodicamente la polizia faceva raid nel parco e alle feste gay private. – dice Michael - Ma finché i gay hanno socializzato senza dare una connotazione politica ai loro incontri, si sono verificati pochi problemi. Nel momento in cui il regime ha iniziato a cadere, le aggressioni contro i gay sono aumentate”.

Quando si parla di omosessualità in Medio Oriente, ogni forma di generalizzazione è vietata. L’area è vasta e varia: “L’Arabia Saudita è molto diversa dal sensuale Libano, che penso sia il Paese più aperto della regione mediorientale. Questo avviene in parte per l’influenza francese, ma il Libano era una terra piuttosto tollerante sin dal tempo dei fenici”, aggiunge Michael. Comunque, una cosa è certa: in ogni Paese esistono luoghi d’incontro e associazioni gay. “In Libano la principale organizzazione omosessuale è Helem, l’Egitto ha il suo movimento gay e via dicendo”, spiega. A volte, nella stessa città, convivono pericolose cacce all’uomo e comportamenti che denotano una qualche apertura mentale. Una vero e proprio insieme di contraddizioni. “Ho trovato molto interessante Baghdad, dove ho visitato spazi sociali per gay in alcune zone e quartieri in cui si dava la caccia agli omosessuali in altre, tanto che circolavano liste con i loro nomi –- racconta il giornalista. Mi ha sorpreso che il libro sia stato messo in vendita perfino lì”.

Da The Post Internazionale

Condividi post
Repost0
8 marzo 2013 5 08 /03 /marzo /2013 23:54

Oggi è la giornata internazionale della donna, una ricorrenza che suscita reazioni controverse: festeggiata da alcuni, aspramente criticata da altri. La festa nasce ufficialmente negli Stati Uniti il 28 febbraio del 1909. È istituita dal Partito Socialista americano, che in quella data organizza una grande manifestazione in favore del diritto delle donne al voto. Ma è solo grazie a una protesta scoppiata a San Pietroburgo, in Russia, per chiedere la fine della guerra, che viene scelta la data attuale.

La giornata internazionale della donna è un’occasione per fare il punto sulle conquiste femminili in campo politico, sociale ed economico. Un giorno in cui vengono ricordate le rivendicazioni, le discriminazioni subìte per millenni, i diritti ottenuti e quelli ancora non riconosciuti. Il primo Paese a concedere il diritto di voto alle donne è la Nuova Zelanda nel 1893. Qui la percentuale di donne che ricopre incarichi ministeriali è del 29 per cento; in parlamento sale al 34 per cento. In Nuova Zelanda esistono leggi contro la violenza domestica, le molestie sessuali e lo stupro coniugale. La disoccupazione eguaglia quella maschile: si attesta infatti sul 4 per cento.

L’Australia concede il diritto di voto alle donne nel 1902. Nel Paese il 23 per cento delle donne occupa posizioni ministeriali e il 28 siede in parlamento. La disoccupazione femminile supera di un punto percentuale quella maschile: 5 per cento contro 4. In Europa, l’Italia si classifica abbastanza bene. Il diritto di voto alle donne viene concesso nel 1945. Anche nel nostro Paese esistono leggi contro le molestie sessuali, lo stupro coniugale e la violenza domestica. Il 22 per cento delle donne ricopreincarichi ministeriali e il 20 per cento è in parlamento.

La disoccupazione femminile si attesta al 9 per cento contro il 6 di quella maschile. L’Italia - fatto curioso - dà i natali alla prima donna laureata della storia: si chiama Elena Lucrezia Corner Piscopia ed è figlia di un’illustre famiglia patrizia del Veneto. Si laurea in filosofia a Padova nel 1678. Sempre in Europa, l’ultimo Paese a concedere il diritto di voto alle donne è la Moldavia nel 1978, preceduta dalla Svizzera nel 1971.

In Medio Oriente un dato preoccupante riguarda Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, dove le donne ancora non possono votare. In Arabia Saudita non ve ne è nemmeno una che ricopra il ruolo di ministroo sieda in parlamento. Diversa la situazione negli Emirati Arabi Uniti, dove il 17 per cento delle donne occupa posizioni ministeriali e il 23 siede in parlamento. Elevata la disoccupazione femminile: 13 per cento contro il 4 maschile in Arabia Saudita, 7 per cento contro il 3 negli Emirati Arabi. Allarma, infine, il fatto che in entrambi i Paesi manchino leggi contro la violenza maschile sulle donne.

Da The Post Internazionale

Condividi post
Repost0
5 marzo 2013 2 05 /03 /marzo /2013 01:28

C’è chi pubblica la foto delle uova al tegamino su Instagram spacciandola per un’opera d’arte, chi passa ore e ore a spiare i profili degli amici su Facebook e chi twitta perfino dalla tavoletta del bagno. Per tutte queste persone (se normali o affette da dipendenza lo diranno gli psichiatri) esiste il National Day of Unplugging: dal tramonto di questa sera fino a quello di domani, negli Stati Uniti la parola d’ordine sarà disintossicarsi dalle tecnologie. Almeno per tutti quelli che decideranno di aderire all’iniziativa, ormai al quarto anno di vita.

Fare a meno di cellulare, laptop, tivù e altri gadget per un giorno intero ad alcuni sembrerà impossibile. All’inizio potrebbero perfino sentire un senso di vuoto e smarrimento. I siti americani provano a dare qualche suggerimento per evitare che ciò accada.

“Prima di staccare la spina, pianificate tutto quello che vorreste fare – consiglia Huffington Post Usa -. E ricordate che se avete appuntamento con qualcuno, dovreste conoscere con esattezza luogo e ora dell’incontro”.

Il Daily Beast elenca tutta una serie di possibili attività a cui dedicarsi nel giorno di tregua: fare esercizio fisico, leggere, uscire, ma anche giocare con il proprio gatto, dedicarsi alla meditazione, pregare e perfino fumare marijuana (laddove la legge lo consente). 

Esistono addirittura party a tema. Uno degli eventi più interessanti è Unplug San Fransisco, che sarà ospitato dal rifugio tech-free Digital Detox. Ai partecipanti sarà mostrato come de-digitalizzare alcune delle attività quotidiane. Per esempio, perché non disegnare la propria profile picture con matite e pennarelli? O scrivere su un muro reale invece che sul quello virtuale di Facebook? 

“Nella vita c’è di meglio da fare che mandare messaggini”, scrive Huffington Post Usa. “Prima di staccare la spina però – continua contraddicendosi -  ricordatevi di partecipare alla nostra Twitter chat “Social Media Anxiety Disorder”. Che anche gli autori dell’Huffington soffrano di dipendenza da tecnologie e social media? 

Condividi post
Repost0
19 febbraio 2013 2 19 /02 /febbraio /2013 14:22

La ‘war on drugs’ (guerra alla droga), dichiarata dal presidente Richard Nixon nel 1971, è fallita. Il premio Nobel per l’economiaGary Becker non ha dubbi. Seduto davanti al computer in una grande aula dell’Università di Chicago, il professore spiega i perché del suo sì allalegalizzazione della marijuana. Insieme con il collega Kevin Murphy, Becker ha da poco scritto sulle pagine del Wall Street Journal un lungo saggio-manifesto a favore della liberalizzazione degli stupefacenti.

La posizione sostenuta dai due guru della scuola di Chicago, vero e proprio bastione del neoliberismo, è rivoluzionaria per la destra americana. Come mai questa rottura col proibizionismo del passato? “Le persone stanno cambiando idea perché il loro tentativo di rendere la marijuana illegale non ha avuto successo - dice Becker - Oggi negli Usa più di 20 stati hanno depenalizzato la marijuana in diverse forme”.

Il professore elenca con pazienza i benefici della liberalizzazione: “Innanzitutto le persone non verrebbero messe in prigione per il semplice consumo di marijuana. Inoltre, la legalizzazione ridurrebbe gli sforzi della polizia e perfino lo stesso traffico di stupefacenti”.

Poi spiega quali sono a suo avviso i principali fallimenti nella guerra alla droga: “Il primo è che si fa ancora un forte uso degli stupefacenti: la guerra non ne ha in alcun modo eliminato o ridotto il consumo. Ha inoltre determinato un aumento dei prezzi: chi spaccia e non viene catturato fa enormi profitti, motivo che induce gangster e pericolosi criminali a entrare nel business”. I prezzi elevati servono a compensare i trafficanti per i pericoli che corrono. Più il rischio cresce, più i costi aumentano. Tutto a vantaggio delle gang più violente e potenti, oltre che dei cartelli della droga, molto difficili da annientare.

“Ci sono poi persone - continua Becker - che spacciano piccole quantità, per esempio nelle scuole, e rischiano di finire in prigione. Mi sembra che in quei casi la pena sia troppo severa”. Negli ultimi 40 anni la percentuale degli studenti che hanno lasciato la scuola superiore è rimasta intorno al 25 per cento. La maggior parte sono ragazzi afroamericani e ispanici. Le ragioni dell’abbandono sono diverse: una tra tutte è la tentazione di fare profitti dedicandosi al traffico di stupefacenti.

Il costo monetario diretto della guerra include le spese per il personale di polizia e dei tribunali, e per tutte le altre risorse necessarie alla lotta. Si tratta di oltre 40 miliardi di dollari. “La guerra ha anche favorito la corruzione di polizia, politici e funzionari”, continua Becker. Spesso chi resiste alle lusinghe delle tangenti è vittima di minacce e inizia a temere per la vita propria e dei famigliari.

La corruzione non è l’unico crimine legato alla marijuana: ci sono anche omicidi e furti, per citarne alcuni. La legalizzazione ne causerebbe un sensibile decremento. “È necessario che ulteriori stati legalizzino o depenalizzino la marijuana. Sempre più Paesi dovrebbero seguire l’esempio del Portogallo, che ha depenalizzato tutte le droghe. Ci vuole un accordo internazionale, in cui si riconosca che la guerra alla droga è fallita”. Sono questi i prossimi passi da fare secondo il Nobel.

Il Portogallo ha optato per la depenalizzazione degli stupefacenti 12 anni fa. Ha deciso di puntare sulla cura dei tossicodipendenti piuttosto che sulla loro persecuzione. I risultati sono arrivati: diminuzione del numero di infezioni contratte e dei crimini connessi al consumo di droga. Invece che davanti a un tribunale, le persone trovate a far uso di stupefacenti sono esaminate da speciali commissioni composte da psicologi, giudici e operatori sociali. Caso per caso, questi esperti decidono che tipo di procedura seguire.

“La depenalizzazione – chiarisce Becker – rende legale il consumo, ma non la vendita. Sarebbe una possibile alternativa alla legalizzazione, ma personalmente penso che sia meglio legalizzare”. La depenalizzazione, infatti, produce benefici, ma non riduce molti dei costi della guerra alla droga, legati soprattutto all’azione contro i trafficanti. La legalizzazione permette invece di tassare la produzione di stupefacenti, esattamente come avviene col tabacco e con l’alcol.

Uno studio condotto da 300 esperti d’economia calcola che la legalizzazione della marijuana in tutti gli Stati Uniti farebbe risparmiare al governo 13,7 miliardi di dollari all’anno. Un’allettante prospettiva, anche se resta da abbattere l’ostacolo della legge federale. Questa, a prescindere dalle decisioni dei singoli stati, vieta la coltivazione, la vendita e il possesso di qualsiasi quantità di marijuana.

 

Da The Post Internazionale

 

Condividi post
Repost0