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  • Maria Elena Tanca
  • Nata a Sassari nel 1981, è giornalista professionista dal 2010.
  • Nata a Sassari nel 1981, è giornalista professionista dal 2010.

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25 febbraio 2013 1 25 /02 /febbraio /2013 02:40

Scarpe, borsette, vestiti, ma anche cappellini, gioielli e sciarpe. L’atmosfera sembra quella di un bazaar e invece ci troviamo a Milano, al coperto, in piazza VI febbraio. E’ qui, nello storico Padiglione 3 dell’ex quartiere fieristico, che è stata inaugurata sabato la Fiera Super. L’iniziativa, che si svolge in concomitanza con la settimana della moda, è dedicata agli accessori e al prêt-à-porter donna. L’ultima giornata dell’esposizione è prevista oggi.

Il salone nasce dall’accordo fra Pitti Immagine e Fiera Milano e si pone un obiettivo: rilanciare la moda milanese. Il settore sta infatti affrontando un momento difficile: i dati parlano di una flessione dell’export e Super si propone di aumentare la competitività, attirare compratori e potenziare l’offerta. Il Padiglione 3, noto anche come Palazzo delle Scintille, ha ospitato in questi giorni 240 brand, tra aziende consolidate e realtà emergenti. Ben il 30% degli espositori era straniero.

Qui sotto un breve focus su alcuni dei marchi che più mi son piaciuti.

Wmaty (What’s more alive than you). E’ un brand italiano che si avvale dell’apporto di giovani creativi di tutto il mondo, accuratamente selezionati tra centinaia di proposte. Alla fiera, Wmaty ha presentato la collezione autunno-inverno: un mix di accessori che, tra scarpe e borse, esprime la voglia di distinguersi. Caratteristiche di questa stagione sono forme asimmetriche, verniciature e intrecci “pixel”.

Atelier Maé. Colpiscono per delicatezza e grazia le creazioni dell’atelier Maé, un tripudio di fiori in feltro e ricami adatto a chi vuole circondarsi di un’aura romantica.

Gingi. Tra i marchi di cappellini è quello che ho preferito. Gingi è un’azienda a conduzione familiare che produce per le più prestigiose firme del made in Italy. L’incontro tra manifattura artigianale italiana e moda dà vita a capi pratici e confortevoli, curati nei minimi particolari.

Sophia Webster, I’m a rainbow too. Camminando al centro del Padiglione l’attenzione viene attirata dall’installazione di Sophia Webster: un boschetto di alberi color pastello sui quali sono costruite delle casette che ospitano le creazioni della stilista britannica. Si tratta di una collezione di calzature che mostra tutto il talento della pluripremiata designer. Tra i riconoscimenti ricevuti dall’astro nascente britannico ci sono il Condé Nast Footwear News Emerging Designer of the Year Award e il New Gen Award del British Fashion Council.

The Green Closet. Organizzato da UK Trade & Investment e dal Consolato generale britannico di Milano, in collaborazione con Pitti Immagine, il progetto raccoglie una decina di marchi britannici di moda e accessori eco-sostenibili. Nel Regno Unito la sostenibilità è un tema molto sentito e il Paese si avvia a diventare leader globale nel settore. L’offerta di The Green Closet spazia dall’abbigliamento alla maglieria, dai bijoux alle borse, dai prodotti da toilette alle candele profumate.

Per concludere: i partecipanti al Super sono veramente tanti ed è impossibile parlare di tutti i in maniera approfondita. La scelta fatta in questo post è assolutamente soggettiva. Se volete maggiori informazioni sui marchi che non ho menzionato, qui  sotto trovate il link al sito dell’evento: http://www.pittimmagine.com/corporate/fairs/super.html

 

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20 settembre 2012 4 20 /09 /settembre /2012 21:52

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Primo piatto: sandali rosa confetto ispirati all’arte del riciclo. Secondo: borsetta che ricorda le monete giapponesi. Dessert: scarpe tagliate in punta e sul tallone. Non si mangiano, ma soddisfano un altro genere di appetito i prodotti del marchio Wmaty (What’s more alive than you). Serviti come portate prelibate su una tavola imbandita del circolo della stampa a Milano, sono il frutto di un connubio tra design internazionale e maestria produttiva italiana. Il marchio, fondato da Mario Innocente e Michela De Zuani, si basa su un’idea innovativa: coinvolgere e reclutare, attraverso il Web, designer, fashion designer, architetti e creativi di tutto il mondo, professionisti, ma anche studenti universitari e talenti emergenti. La start-up si è infatti servita di alcune piattaforme di crowdsourcing per raccogliere idee provenienti da ogni Paese, scegliendo e premiando le migliori. Ai designer selezionati è stata riconosciuta una royalty per ogni prodotto commercializzato. Un modo originale per rendere la moda un’esperienza più partecipata.

“Amo la storia e le tradizioni, i vecchi oggetti e i disegni antichi, ma sono attratta anche da cose molto moderne – dice Akiko Tanakashi, autrice della linea di borse My Jaba money, ispirata alle monete giapponesi –. Quando penso a un oggetto, provo a unire sensazioni attuali e vecchie tradizioni. Questo per me significa dare continuità alla storia”. Le sue borse sono caratterizzate da un manico-bracciale in metallo placcato in argento, che permette di portarle al polso come un gioiello.

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Particolari sono le Recycle shoes, un paio di scarpe in pelle conciata al naturale, disponibili in giallo o in rosa confetto. La peculiarità del modello, nato dall’estro della svedese Liza Fredrika Aslund, è data dai tacchi. Questi traggono ispirazione dall’assemblaggio di pezzi di sedie e tavoli e, quindi, dal riciclo.

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Altre scarpe che colpiscono sono quelle della linea Madame Guillotine. La designer, francese di Nantes, si chiama Florence Estelle Girault e si è ispirata ad alcuni momenti della rivoluzione francese. Il risultato sono scarpe dal disegno asimmetrico, tagliate come da una ghigliottina in punta e sul tallone.

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Ma non sono da meno i designer italiani. Filippo Mantone è autore della linea di borse Ellis Island, caratterizzate dal patchwork cucito a mano e dal manico “continuo”, che permette di portarle in due posizioni diverse. Giulia Signorini ha creato le scarpe Mix_Cut_Paste, con gambale fatto di anelli assemblabili a piacimento, fino a ottenere un paio di stivaletti estivi. Seguono Lucia Pontremoli, Paola Bimaso, Cristian Barato e Andrea Samantha Maggioni.

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Ci sono poi le scarpe maschili, con la linea del tedesco Albrecht B. Engel e quella del giapponese Akahito Shigemitsu.

Infine, non poteva mancare un’inglese: Victoria Geaney sorprende con la sua collezione di scarpe floreali, eleganti ed eco-friendly.

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13 luglio 2012 5 13 /07 /luglio /2012 22:39

Le divise della squadra olimpica statunitense sono “made in China”. E negli Stati Uniti scoppia la polemica. Ralph Lauren, che veste gli atleti della nazionale, si è avvalso di manodopera cinese a basso costo, scelta che non è stata accolta in maniera positiva. Contro il marchio si sono schierati attivisti dei diritti umani, stilisti e senatori.

“Sono veramente arrabbiato. Penso che il comitato olimpico dovrebbe vergognarsi. Credo che dovrebbero prendere tutte le divise, ammucchiarle, bruciarle e ricominciare tutto da capo”, ha detto alla conferenza sulle tasse tenutasi a Capitol Hill il leader della maggioranza democratica in senato, Harry Reid.

“E’ veramente preoccupante, perché avrebbero potuto fabbricarle qui negli Stati Uniti, a New York o in qualsiasi altra città dove ci siano ancora fabbriche”, ha dichiarato la stilista Nanette Lepore alla Cnn.

Il dibattito si è acceso al Congresso, dove repubblicani e democratici ne hanno discusso giovedì. La scelta di produrre in Cina in un momento di crisi dell’industria tessile americana, con centinaia di persone alla disperata ricerca di un lavoro, è stata giudicata sbagliata da entrambi gli schieramenti.

Steve Israel, democratico membro della Camera dei rappresentanti per lo stato di New York, ha sostenuto che le uniformi potrebbero essere rifatte, sul territorio statunitense, in tempo per le olimpiadi di Londra. “Made in America – ha detto – non è solo un’etichetta, ma una strategia economica”.

Ci si è messa anche un'attrice e attivista dei diritti umani come Mia Farrow, che si è servita di Twitter per chiedere spiegazioni allo stilista: “Per favore, ci diresti perché le uniformi olimpiche degli Usa sono fatte in Cina? Perché non negli Stati Uniti?”. E ne ha approfittato per appoggiare la proposta di Reid: “Bruciatele e rifatele da capo. Che ne dite?”, ha twittato.

Secondo stime ufficiose, la produzione degli abiti in Cina avrebbe sottratto all’economia statunitense circa un miliardo di dollari. Ma globalizzazione significa anche spostare la produzione laddove i costi sono più bassi: “Quando le industrie riescono a esternalizzare la produzione, diventano più competitive. Riescono a fare attenzione ai costi. E se riescono a farlo, possono garantire una migliore qualità, una maggior varietà a prezzi più bassi per i consumatori americani”, ha detto alla CNN Daniel J. Ikenson, del Cato Institute, think tank di orientamento libertarian. In realtà i capi delle divise americane non costano poco. Basti pensare che la cintura da sola ha un prezzo di 85 dollari.

Il comitato olimpico si è però difeso, ricordando che, a differenza della maggior parte delle squadre del mondo, quella americana è finanziata da privati. “E siamo grati del supporto ricevuto dai nostri sponsor”, ha detto il portavoce del comitato olimpico, Patrick Sandusky.

A ben vedere, gli Stati Uniti non sono l’unico Paese le cui divise siano state fabbricate in Cina: anche quelle australiane hanno l’etichetta “made in China”. E nel 2008, per  le olimpiadi di Pechino, era successo lo stesso con quelle canadesi.

Qui sotto il servizio della Cnn:

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18 giugno 2012 1 18 /06 /giugno /2012 15:39

Johnny Depp, Brad Pitt, Adrien Brody. E poi Justin Timberlake, David Beckham e Bob Dylan. Per loro indossare un cappello in estate è la norma. Ma non uno qualsiasi: la moda quest’anno impone l’uso del cappello di paglia. Scegliere un modello appropriato richiede tempo: lo stile e le proporzioni devono essere adeguati alla forma della testa e del viso ed essere complementari ad altezza e corporatura.

Ne esistono di diversi prezzi: il costo varia a seconda del materiale usato e del lavoro artigianale che c’è dietro. Di paglia intrecciata, parabuntal, toyo, rafia, sisal o Carludovica palmata: c’è solo l’imbarazzo della scelta. Quest’ultimo materiale, noto anche come toquilla, è una paglia elastica e lucente che si ricava dalle foglie di una palma nana, la Carludovica palmata, appunto. La toquilla è il materiale usato per i famosi cappelli panama, che in realtà provengono dall’Ecuador. Portano il nome di Panamà solo perché la città è stata per secoli il loro principale scalo commerciale. Il nome del centro è rimasto legato indissolubilmente a quello del cappello anche per via di un famoso evento storico: il presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, ne indossò infatti uno durante l’inaugurazione del Canale di Panama, nel 1906. Le foto dell’evento fecero il giro del mondo, aumentando la notorietà del cappello. Essendo realizzati con tessuti naturali, i cappelli di paglia possono presentare lievi imperfezioni. Anche queste contribuiscono a renderli particolari e unici.

Per trovare la giusta taglia è necessario prendere le misure a partire da poco più di un centimetro sopra il sopracciglio. Gli esperti, infatti, non si basano su taglie come S, M, L e XL, tipiche dei modelli più economici. L’unità di misura più semplice per orientarsi è il centimetro. Una taglia europea di 60 centimetri equivale a una misura 7⅜ in UK e a una 7½ negli Stati Uniti.

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15 giugno 2012 5 15 /06 /giugno /2012 02:14

Negli ultimi dieci anni i media che si occupano di moda sono cambiati. La prova tangibile di quest’evoluzione è il premio consegnato la scorsa settimana dal Council of Fashion Designers of America ai blogger Scott Schuman e Garance Dore. “Sei anni fa, quando ho aperto il mio blog, non era preso molto sul serio”, ha detto Garance ricevendo il premio. 

Da allora le cose sono cambiate rapidamente: “La moda e i media si evolvono ogni secondo a causa della tecnologia”, ha detto il presidente del CFDA, Steven Kolb. Sono passati i giorni in cui la carta stampata la faceva da padrona. Ora le notizie passano attraverso Twitter, mentre i blog e i siti web sono diventati autentiche fonti d’informazione. Tutti miglioramenti che hanno enormi implicazioni nel lavoro di chi si occupa di moda. Oggi un redattore non è più solo un redattore, ma deve anche essere un blogger, saper usare Twitter, Instagram ed essere una personalità.

 

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9 giugno 2012 6 09 /06 /giugno /2012 02:54

Pagare o non pagare? Questo è il dilemma. I marchi di moda si servono sempre di più dei fashion blogger, ma la collaborazione inizia a farsi costosa. Così, gli stilisti iniziano a porsi dubbi, a farsi domande. Sostengono che, in termini di ritorno sugli investimenti, una rivista o una pubblicità alla tivù siano più efficaci e sollevano dubbi sui compensi richiesti da alcuni blogger. Fanno, inoltre, un’altra considerazione: i giornalisti non sono pagati per parlare dei prodotti di un’azienda. Ergo, i blogger di moda non sono giornalisti. Non avendo questa qualifica, non esiste alcun obbligo di pagarli.

Dal canto loro, i blogger rispondono che le tariffe richieste sono eque perché la loro attività può permettere di ottenere fino a un milione di pagine viste in un mese, sia sui loro siti, sia sui siti del brand. Questo significa che, in termini di ritorno sugli investimenti, sono efficaci. Alcuni blogger sono anche giornalisti, ma la maggior parte di loro non si considera tale perché esprime opinioni su ciò che vede: più editorialisti, dunque, che cronisti.

La tensione tra le aziende di moda e i blogger è una conseguenza dell’evoluzione del mondo del Web. Nel momento in cui i brand aumentano il loro coinvolgimento con i blogger in termini di copertura e progetti, la linea tra ciò per cui dovrebbero essere pagati e ciò per cui non dovrebbero diventa sempre più indistinta. Per una cifra compresa tra i 20.000 e i 25.000 dollari, un’azienda può ingaggiare un blogger per svariati progetti nel corso della settimana della moda.

Nel 2010, Bryan Grey Yambao, penna del blog Bryanboy, ha guadagnato più di 100.000 dollari all’anno dalla sua attività. Neiman Marcus, catena di grande distribuzione specializzata in prodotti di lusso, misura l’efficacia di una campagna monitorando le pagine viste, i visitatori unici, le impressioni, il traffico, ma anche i “likes”, i commenti, i retweet, le condivisioni, le risposte, le citazioni del marchio e l’aumento dei link in entrata e in uscita.

Il blog di Aimee Song, “Song of Style”, che ha raggiunto nel mese di aprile i due milioni di pagine viste, ha lavorato per marchi come Seven For All Mankind, True Religion, Fossil, Levi’s, Smart Car e Macy’s . Tutti lavori retribuiti. “Benché i blogger non siano celebrità, molti di noi hanno un buon pubblico e, talvolta, grazie ai social media, possiamo raggiungere perfino un pubblico più vasto”, ha spiegato Song al magazine Women’s Wear Daily. Un suo articolo collegato a un post su Instagram, dove ha oltre 100.000 follower, può far vendere in un solo giorno un abito fino a esaurimento. “Prima, quando ero molto ingenua e agli inizi, avrei collaborato con i marchi di moda gratis”, ha detto al magazine Women’s Wear Daily. Ora è in viaggio per il Paese con Macy’s per seguire la collezione Bar III e ha raccontato che i compensi variano da un paio di migliaia per stare tutto il giorno nel negozio, twittando e caricando immagini su Instagram, fino a 50.000 dollari per una collaborazione con un marchio, di cui non ha voluto rivelare il nome.

Coach, azienda in prima linea nella collaborazione con i blogger, nel 2009 è stato uno dei primi ad assumere blogger come Hanneli Mustaparta, Leandra Medine, Emily Weiss e Kelly Framel per progettare, disegnare, bloggare e perfino apparire nelle sue campagne pubblicitarie. Secondo David Duplantis, vicepresidente esecutivo dei media digitali e online, la relazione tra marchio e blogger è simbiotica. Perciò, se il marchio trae benefici raggiungendo il pubblico del blogger in aggiunta al proprio, il blogger, a sua volta, beneficia del prestigio che trae dal lavorare con un marchio forte e autorevole come Coach. “Non consideriamo la collaborazione con il nostro blogger come pubblicità. Per noi, è importante la creazione di contenuti e l’opportunità di lavorare con una comunità vibrante e creativa”, ha aggiunto Duplantis. Più di recente Coach, si è messa alla ricerca di nuovi talenti e ha iniziato a lavorarci, presentandoli al suo pubblico al posto di blogger già affermati. Al tempo stesso, però, ha mantenuto anche le collaborazioni con i più seguiti influencer digitali. 

Con l’aumentare delle parternship con i blogger, questi hanno portato alla luce un tema ricorrente: l’integrità giornalistica dei blogger. Da un lato, i blogger vorrebbero essere considerati come giornalisti, ma stringendo alleanze con i marchi leader e i designer creano quel che qualcuno chiamerebbe conflitto di interessi. I blogger sostengono di non essere giornalisti nel senso tradizionale del termine: ritengono che stia nascendo una nuova forma di giornalismo, ibrida e che si sviluppa velocemente. “Per mantenere la mia integrità non scambierei un prodotto con i post sul blog, ma se qualcuno mi spedisce qualcosa, non lo rimando indietro”, ha detto Medine di Man Repeller, che raggiunge circa due milioni di pagine viste al mese. “So di non essere un redattore del Wall Street Journal e va bene. Non devo avere un punto di vista imparziale. Il bloggare riguarda la soggettività”. “Ultimamente, tutti in questo mondo cercano di fare soldi, e non vedo perché i blogger dovrebbero essere rimproverati per aver cercato di trasformare i loro hobby in un business”, ha continuato.  

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5 giugno 2012 2 05 /06 /giugno /2012 10:12

Quest’anno le regine della moda sono le gemelle Olsen. Ieri, nell’Alice Tully Hall del Lincoln Center di New York, Mary Kate ed Ashley hanno ricevuto il premio come stiliste femminili dell’anno dal Council of Fashion Designers of America. The Row, questo il nome della collezione lanciata dalle ex stelline della tivù per ragazzi, ha ricevuto così la consacrazione dal gotha della moda statunitense. L’attrice Jessica Chastain, vestita con un abito bianco di Prabal Gurung, ha incoronato le 25enni davanti a una platea di stelle della moda e di Hollywood. “Voglio ringraziarti”, ha detto Mary Kate alla gemella, mentre accettava il premio. 

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Ma le gemelline non sono state le uniche ad essere insignite con prestigiosi riconoscimenti, benché il loro possa essere considerato il più importante. Reed Krakoff ha ricevuto il premio come miglior designer di accessori. A consegnarglielo c’era la sexy attrice di Mad Men, Jessica Paré, fasciata in un tubino nero e fucsia con ricami in pizzo, firmato Jason Wu. Quando le è stato chiesto di confrontare il suo stile con quello di Megan (personaggio che l’attrice interpreta nella serie, ndr), Paré ha risposto: ”E’ molto diverso. Io preferisco tonalità scure, mentre penso che Megan indossi molti colori vivaci”.

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Matt Bomer, protagonista della serie White Collar, ha invece premiato Billy Reid, nominato miglior stilista maschile.

Tra gli assenti bisogna ricordare Johnny Depp, che ha ottenuto il premio come icona fashion dell’anno. L’attore si trovava sul set del film “The Lone Ranger”, perciò la statuetta è stata ritirata per lui dal regista di Cry-Baby, John Waters. Di fronte a un collage delle mise sfoggiate dall’attore nel corso degli anni, Waters ha detto: “Quest’uomo, per quanto ci provi, non riesce a sembrare brutto”. Johnny Depp è in buona compagnia: in passato il premio è stato vinto da Cher, Elizabeth Taylor, Lady Gaga e Audrey Hepburn. “C’è qualcosa di autentico in Johnny e lo puoi vedere dai suoi occhi. E’ bello e malizioso”, ha dichiarato la presidentessa del CFDA, Diane von Furstenberg.

Waters ha inoltre accettato il premio internazionale al posto della stilista Rei Kawakubo, che ha vinto per gli abiti creati con la sua casa di moda, Comme des Garcons. Il regista ha fatto le veci di Kawakubo in quanto suo amico, oltre che ammiratore delle sue creazioni. “Alcune persone potrebbero descrivere i suoi vestiti come un disastro in tintoria”, ha scherzato Waters, elencando il mucchio di istruzioni per il lavaggio presenti sulle etichette dei capi disegnati dalla stilista giapponese.

Il Council of Fashion Designers of America ha assegnato, inoltre, una serie di premi sponsorizzati da Swaroski e dedicati ai talenti emergenti. Per la categoria moda femminile, ha vinto Joseph Altuzarra. Phillip Lim ha ricevuto l’award per la moda maschile e Tabitha Simmons quello per gli accessori.

Il momento più divertente della serata è stato quando il conduttore, Set Meyers, si è preso gioco di Marc Jacobs e dell’abito in pizzo indossato sui pantaloncini in occasione del gala di moda al Met. Meyers ha definito la mise di Jacobs “ventilata”. I protagonisti del mondo della moda non sono noti per il senso dell’umorismo e questo ha reso ancor più comico il momento. Altro episodio curioso è stato lo scambio di battute tra la direttrice di Vogue, Anna Wintour e Tommy Hilfiger. Presentando lo stilista, Wintour ha detto che sa essere molto spiritoso, soprattutto quando imita personaggi famosi come Karl Lagerfeld, Donna Karan o Mick Jagger. “Sino a che non imiterai me, andrà tutto bene”, ha scherzato.

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Ricca la passerella degli ospiti. L’attrice Kate Bosworth indossava un abito Joseph Altuzarra, decorato con una fantasia arancione e oro, mentre l’angelo di Victoria’s Secret Candice Swanepoel si è presentata sul red carpet con un Valentino di pizzo color blu pallido.

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Dakota Fanning ha fatto il suo ingresso con indosso un vestito corto di Proenza Schouler, dalle fantasie e dal taglio orientali. Zoe Saldana era molto elegante nel suo Prabal Gurung nero e trasparente, che lasciava intravedere le lunghe gambe.

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Anna Wintour indossava un abito a fiori di Marc Jacobs. L’attrice Sophia Bush, invece, era fasciata da un vestito color arancione di David Meister, con uno spacco vertiginoso e uno scollo a V sul seno.

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19 maggio 2012 6 19 /05 /maggio /2012 21:36

Il giorno dopo il debutto in borsa di Facebook, il mondo della moda si interroga su quale sarà l’impatto dell’IPO (Offerta Pubblica Iniziale) sull’industria dell’abbigliamento. A parte cercare di ottenere il maggior numero di “mi piace” sulle loro pagine Facebook, i marchi di moda non hanno ancora ben capito come il social network possa essere impiegato al meglio. Con l’IPO, secondo il magazine online Women’s Wear Daily, qualcosa cambierà.

Innanzitutto, Facebook avrà molto più denaro da usare per sviluppare la tecnologia Open Graph. Il protocollo di comunicazione, introdotto nel 2010, permette di creare applicazioni (siano esse siti internet, applicazioni per cellulare, classiche o hardware) in grado di integrarsi con Facebook come se fossero una vera e propria pagina del social network. Ma l’azienda di Mark Zuckerberg potrebbe utilizzare la maggior disponibilità di denaro anche per cercare di aumentare la partecipazione degli utenti.

La pubblicità su Facebook potrebbe inoltre diventare una vera e propria priorità e questo comporterebbe enormi opportunità sia per il social network, sia per l’industria della moda.

Gli acquisti online, infine, potrebbero decollare fino a diventare una realtà sempre più imponente. Uno dei primi a muoversi in questa direzione è stato Nordstrom, marchio che ha iniziato a pubblicizzare i suoi prodotti su Facebook nel 2010, raggiungendo oltre un milione di “likes”. L’azienda ha di recente annunciato che esplorerà altre vie del commercio “social”. In particolare, cercherà di trovare un modo per permettere ai clienti di fare shopping online in modo pratico e conveniente.

 

 

 

 

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4 maggio 2012 5 04 /05 /maggio /2012 02:13

Vogue bandisce l’anoressia dalle sue pagine. La bibbia della moda scende in campo per difendere la salute delle modelle con la campagna “The health initiative”. I 19 direttori delle edizioni internazionali di Vogue hanno deciso di far fronte comune per migliorare le condizioni di lavoro delle modelle e promuovere un’immagine sana del corpo femminile. Le edizioni americana, francese, cinese e britannica si adegueranno alle nuove linee guida già dal numero di giugno. Quella giapponese, invece, inizierà a seguirle dal mese di luglio.

Nel manifesto dell’iniziativa, pubblicato da Vogue Italia, i direttori si impegnano a “non usare consapevolmente” modelle sotto i sedici anni. Chiedono inoltre ai responsabili dei casting di controllare la carta d’identità delle ragazze prima dei servizi fotografici e delle sfilate e incoraggiano i produttori e gli incaricati delle selezioni ad assicurarsi che le condizioni di lavoro nel dietro le quinte siano buone. Non solo. Vogue si impegna a fornire supporto nell’organizzazione di programmi di mentoring in cui le modelle più anziane faranno da guida alle più giovani. E per finire i direttori delle riviste non useranno più modelle troppo magre e dall’aspetto poco sano.

Vogue è di certo un’autorità in fatto di moda, ma è difficile pensare che riesca a influenzare un’industria che ha fatto della magrezza un’ossessione. Senza l’adesione degli stilisti sarà problematico cambiare tale tendenza. Anche per questo nel manifesto si afferma che Vogue li incoraggerà a prendere in considerazione  le conseguenze dell’uso di taglie “irrealisticamente piccole”, che limitano la varietà di donne fotografate e incoraggiano l’uso di modelle magrissime. 

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24 aprile 2012 2 24 /04 /aprile /2012 22:34

thumbs thatwasthen-5Circa sette milioni di americani hanno il porto d’armi. Per queste persone il marchio d’abbigliamento Woolrich ha creato una linea di capi chic che permette di nascondere eventuali pistole. Lo racconta il New York Times nelle sue pagine di stile. Woolrich, azienda che vanta 182 anni di storia, aveva già  lanciato la nuova tendenza nel 2010, con una serie di magliette. Ora il marchio ha addirittura una linea dedicata, la “Woolrich Elite concealed carry line”, che comprende giacche, pantaloni e piumini.

Ovviamente, Woolrich non è la sola azienda che punta sulla nuova tendenza. Diversi marchi d’abbigliamento stanno seguendo l’esempio. Uno di questi è Under Armor, noto per la produzione di capi e accessori sportivi. L’azienda ha creato una linea di indumenti realizzati con tessuti tecnologici in grado di proteggere le armi dalla ruggine causata dal sudore. “I marchi che producono magliette in grado di nascondere armi sono tanti, ma usano il normale cotone”, ha spiegato al New York Times Kevin Eskridge, senior director di Under Armor. Altro marchio che ha deciso di seguire la nuova tendenza è 5.11 Tactical, azienda specializzata in abbigliamento militare: “Abbiamo cercato di creare una collezione di indumenti che permettano al compratore di avere uno stile alla moda, ma al tempo stesso presentino caratteristiche che gli consentano di portare con sé una pistola ed estrarla rapidamente”, ha dichiarato al New York Times il vice presidente David Hagler.

Gli esperti suggeriscono che sono tanti i motivi per i quali il numero di americani con il porto d’armi potrebbe aumentare. Tra di essi figurano il cambiamento del clima politico ed economico e le sempre più permissive leggi statali. Infatti, ben 37 stati americani hanno statuti che obbligano a concedere il porto d’armi se chi lo richiede possiede tutti i requisiti previsti dalla legge. E addirittura ci sono stati che consentono il possesso di un’arma da fuoco senza il bisogno di autorizzazione. Un vero e proprio cambiamento dal 1984, quando solo otto stati avevano statuti così permissivi e quindici non consentivano di portare con sé una  pistola.

In realtà, come spiega John Lott, esperto di cultura delle armi da fuoco, la maggioranza degli stati ha per lungo tempo permesso di portarle apertamente con sé. Ma, come spiegano altri esperti, gran parte della gente non vuole far sapere che ha con sé una pistola e, soprattutto, vuole evitare domande da parte della polizia. Non tutti, però, amano i nuovi pantaloni creati da Woolrich. Per esempio Howard Walter, 61 anni, commesso al Wade’s Eastside Guns di Bellevue, Washington,  preferisce nascondere la sua Colt in un paio di resistenti pantaloni da lavoro. “Non urlano “pistola” - ha spiegato al New York  Times -. Urlano “uomo medio per la strada” .

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